Ho ritenuto opportuno e
doveroso inserire in questo mio sito ciò che penso della pena di morte.
L’ho fatto, anche e soprattutto, per l’irritazione che
mi prende ogniqualvolta ne sento invocare l’applicazione anche in questo nostro
paese, a dispetto di ogni civile istanza di moratoria mondiale, da parte di
soggetti che non hanno, talvolta, nemmeno la scusante dell’ignoranza. Si
tratta, indubbiamente, di persone che vivono di certezze. E non c’è nulla di
più penoso di chi agisce nella ferma convinzione di essere sempre nel giusto.
Che siano o no credenti, inviterei costoro a riflettere su quel passo del
Vangelo che narra l’episodio dell’adultera. Ha quasi 2000 anni, ma rappresenta
ancora la più valida, convincente ed accorata condanna di una bestialità della
quale sono ancora in tanti a non comprendere la portata.
PREMESSA
Quantunque risultino
accomunati dal mantenimento della barbara istruzione, è necessario operare una
netta distinzione tra regimi autoritari, paese islamici e regimi democratici
dell’occidente
Impossibile, in altri termini,
esprimere un giudizio che risulti valido per la Cina come per l’Iran e per
quegli stati americani in cui la pena tuttora sussiste.
Nel primo caso l’ecatombe di criminali (o presunti
tali) è retaggio di antiche consuetudini incrementate dal protrarsi del regime
comunista. Nel secondo pesa non poco la mancanza di laicismo con la conseguente
sudditanza delle leggi nei confronti di arcaiche (e talvolta dubbie)
imposizioni coraniche.
Mi soffermerò quindi
esclusivamente sugli USA, in quanto paesi a noi molto vicini per storia e
tradizioni.
L’ OCCIDENTE E LA PENA DI
MORTE
Noi europei abbiamo con gli
statunitensi diverse cose in comune. In primo luogo le radici cristiane ma
anche modelli istituzionali che ci derivano dall’ Illuminismo. Siamo entrambi
per una società laica e (pur con tutte le sue approssimazioni) democratica.
Nel contesto dell’abolizione
della pena capitala è impossibile ignorare il primato indiscutibilmente
italiano rappresentato sul piano del pensiero dall’opera del Beccaria e,
nell’applicazione pratica, dall’illuminismo del Lorena che già nel 1787,
abolendola nei loro domini di Toscana segnarono un punto di non ritorno da una
sanguinosa consuetudine protrattasi per millenni.
La Rivoluzione Francese si
limitò ad “umanizzare” l’esecuzione di condanne a morte mettendo fine alle
pratiche di inaudite sofferenze che l’avevano accompagnata ancora per gran
parte del ‘770. Rimasto tuttavia in vigore, l’istituto si protrasse in molti paesi
fino ed oltre il secondo conflitto mondiale. Conseguenza, forse,
dell’assuefazione allo spettacolo della morte legato ai devastanti conflitti
militari che nel XIX, ed ancor più nel XX secolo, l’avrebbero mezzo spopolata.
LIMITI DELLA DEMOCRAZIA
Da che mondo è mondo, almeno
per quanto riguarda l’Europa, nel medioevo,come nell’età moderna ed in quella
contemporanea, la figura del boia è sempre risultata esclusa dagli indici di
gradimento della popolazione; segno, questo, dell’intima ed innata ripugnanza che
ogni membro delle comunità poste al di qua dell’Oceano, ha sempre provato nel
veder scannare per legge i suoi simili. Non si capisce, di conseguenza come,
nella democraticissima America possa esserci stato di recente un capo di stato
(Clinton) capace di interrompere un viaggio per non perdersi la morte di un
anonimo disgraziato.
E’ pensabile che negli Stati
USA non abolizionisti gli uomini pubblici siano altrettanti incorreggibili
forcaioli? Penso proprio di no. Molti saranno intimamente convinti dell’opportunità
di pensionare quelli che un tempo venivano definiti “esecutori delle alte opere
di giustizia”. Il guaio è che, arrischiandosi ad esternare tale loro
orientamento, avrebbero molte probabilità di giocarsi la carriera, dal momento
che la maggioranza degli elettori risulta decisamente orientata al mantenimento
delle esecuzioni.
Non è possibile d’altra parte,
forzare l’essenza stessa della democrazia; un regime che, una volta scelto, va
seguito nel bene come nel male.
Poniamo che io, membro di una
sperduta comunità arcaica ma democratica, accusi male allo stomaco e che lo
stregone eletto in carica dalla tribù debba obbligatoriamente attenersi alle
decisioni della maggioranza. Scarseggiando in essa soggetti dotati di
elementari cognizioni mediche, potrebbe accadere che la maggioranza si
orientasse per una trapanazione del cranio. Cosa pensate che mi accadrebbe alle
prese con uno stregone niente affatto disposto a giocarsi carica e connesse
prebende? Certamente ci rimetterei la pelle senza alcun vantaggio per il
progresso della scienza medica.
In America accade qualcosa di
molto simile, dal momento che nutrite maggioranze e giurie assolutamente
digiune di studi su connotati ed origini della devianza si aspettano dalla
Giustizia una sola cosa: la condanna a morte di chi risulti colpevole.
LIMITI DELLA GIUSTIZIA
E’ fuor di dubbio che le
procedure proprie del processo penale siano in USA molto più affidabili e
garantiste di quelle, ad esempio, in vigore nella Cina comunista. Ma possiamo
giudicarle tali da escludere l’”errore”?
Mesi addietro un governatore
repubblicano (e niente affatto abolizionista), prima di porre termine al
mandato si è affrettato a graziare tutti i condannati presenti nella sua
giurisdizione dichiarando di essere rimasto esterrefatto da approssimazioni e
falsificazioni procedurali che avevano aggravato pesantemente la posizione
degli arrestati.
Le forti differenze negli onorari forensi costituiscono, d’altra parte, la miglior prova sulla problematica affidabilità di parecchi verdetti.
Di solito, chi è chiamato a giudicare, si limita all’accertamento della responsabilità del reo mitigando talvolta la pena in considerazione di qualche possibile attenuante; prima, fra tutte, l’immaturità e la parziale incapacità d’intendere e di volere. Ora, segnatamente in fatto di patologie comportamentali, la moderna scienza continua a fare scoperte sempre più interessanti e sensazionali, e non è detto che chi dovesse risultare inappellabilmente colpevole per un’odierna giuria lo sarebbe altrettanto qualora venisse sottoposto a giudizio tra dieci anni. Fin troppo chiaro che, in assenza di pene capitali, una sentenza a pene detentive consentirebbe (sia pure tardivamente) un riesame del caso.
Al di la di tutto questo resta, poi, insanabile, l’evidente contrasto tra le modalità che accompagnano l’esecuzione capitale e l’emendamento al testo costituzionale, che vieta la messa a morte con mezzi crudeli o disumani. Un’autentica beffa per istituzioni capacissime di far scontare veri e propri ergastoli a gente che approda all’”ago” dopo venti o venticinque anni di detenzione in attesa della pena capitale. E’ come se lo Stato premeditasse un omicidio per un quarto di secolo facendo vivere l’oggetto delle sue attenzioni nel terrore di vederlo attuare da un momento all’altro. Senza contare che, non di rado, il soggetto che approda alla cella della morte è persona diventata, col tempo, totalmente diversa da quella che commise il reato.
Altro che umanizzazione della pena. Qui si è in presenza di qualcosa che supera l’inventiva di medievali supplizi, con l’aggravante che fino a qualche secolo addietro, a differenza di oggi, molta gente si preparava all’ ‘ultimo viaggio’ con quella certezza di vita eterna che oggi è patrimonio di pochi.
Vige in Texas, come in California ed in altri Stati dell’Unione, la macabra usanza di ammettere alla vista dell’esecuzione i parenti delle vittime attribuite al condannato. Mentre dubito che la cosa sortisca in costoro effetti edificanti penso alle gratuite sofferenze inflitte ai parenti del condannato; gente che, pure esente da ogni colpa, vive lo strazio dell’ attesa dell’esecuzione
Tutto questo avviene perché
c’è una maggioranza fermamente convinta che solo il ricorso alla pena capitale
possa salvare la vita alle potenziali vittime della dilagante delinquenza.
Gli omicidi aumentano o calano in presenza di contesti
non determinati da chi delinque e che sono la risultante di complessi fenomeni
socio-politici di rilevanza tale da tirare in ballo natura ed incidenza della
società in cui si verificano gli eventi delittuosi.
INCIDENZA DELLA SOCIETA’
Non c’è codice penale che non
contempli il reato di istigazione a delinquere. Naturale, oltre che giusto,
chiamare in causa coloro che, ponendolo in atto, forniscono incontestabili
attenuanti agli autori materiali di un qualche reato.
Le ristrettezze economiche
possono non costituire giustificazioni all’esecuzione di un furto. Ma avrei
qualche riserva a negare consistenti sconti di pena qualora alle stesse dovesse
accompagnarsi la più sfacciata indifferenza delle istituzioni in fatto di
assistenza per i meno abbienti. D’altra parte la preoccupazione che accomuna
tutti i paesi europei sul reperimento dei mezzi idonei al mantenimento del
welfare riposa, prima che su istanze umanitarie ed egualitarie, sull’esigenza
di assicurare a tutti quel minimo di garanzie capaci di salvaguardare dal caos
l’intera comunità.
Risulta quindi del tutto
evidente come, per analogia, sia possibile trasporre il discorso dai reati
contro la proprietà a quelli sulla persona; situazione, quest’ultima, in cui,
fatta eccezione per i crimini cruenti causati da pericolose patologie (talvolta
esplose per ingestione di droghe), non restano che due moventi:
l’appropriazione di beni altrui e lo spirito di vendetta.
Le istituzioni che contemplano
l’applicazione della pena capitale si ispirano, sostanzialmente, alla logica
del “dente per dente” dando per scontato che, provvisto di libero arbitrio,
ogni soggetto in grado di intendere e volere debba rispondere in toto delle
proprie azioni. Un ragionamento semplicistico che, insistentemente veicolato
dai media, induce l’opinione pubblica a vedere il male sempre nettamente
separato dal bene ed interamente concentrato nell’autore materiale di gravi
misfatti. Difficile, di conseguenza, almeno per i più, impegnarsi a valutare
l’incidenza avuta dal contesto sociale sul comportamento criminale.
Fatta eccezione per alcuni
paesi dell’Europa occidentale, si potrebbe tranquillamente osservare che si
possono contare sulle dita di una mano le situazioni in cui qualche generazione
sia riuscita a sottrarsi alle atrocità della guerra. Chi ha avuto la fortuna di
leggere Remarque non potrà fare a meno di comprendere le ragioni di quelle
esplosioni di delinquenza comune che, di solito, caratterizzano a lungo ogni periodo
postbellico.
Viviamo in un contesto
socio-economico in cui l’”apparire” e l’”avere” prendono sempre il sopravvento
sull’”essere” grazie alla martellante istigazione di un megapparato
pubblicitario tutto teso a trasformare il superfluo in necessario.
Vizi e vistose forme
disgregatrici del rispetto della vita umana hanno sempre costellato la storia
dell’umanità, ma oggi è indiscutibilmente assai peggio di ieri, per il semplice
fatto che tali atteggiamenti (un tempo circoscritte a certe elites politiche e malavitose) risentono
adesso tutti gli effetti della spinta alla massificazione di mode
comportamentali che fanno onorevolmente business spingendo l’individuo a
sacrificare all’avere (come all’emergere) qualsiasi sentimento di solidarietà e
finanche di rispetto nei confronti del prossimo.
Il libero arbitrio diventa a
questo punto un semplice e dotto riferimento biblico, scarnificato com’è
dall’educazione a tutta una serie di valori, dei quali la società pare
ricordarsi solo quando si tratta di fare legalmente la pelle a qualcuno.
LA PENA DI MORTE COME
PECULIARITA’ STATUNITENSE
Il Nord America costituisce da
tempo un insieme di società multietniche connotate da ininterrotti flussi
migratori. Un aspetto, questo, che potrebbe spiegare molte cose.
Nell’Italia contemporanea
l’opinione pubblica si sofferma sulle caratteristiche di un delitto più che
sull’applicazione delle pene che potrebbero derivarne. E’ stato così per il
caso Montesi, per il delitto Fenaroli e, in tempi ancora più recenti, per la “Uno
bianca” o la “banda della Magliana”. Il picco dell’attenzione si giustifica con
lo sgomento che si prova nel constatare come gente ritenuta fino al giorno
prima in tutto e per tutto uguale a noi possa essersi macchiata di gravi
crimini. Per la stessa ragione lo sterminio del proprio nucleo famigliare
compiuto, ad esempio, da un musulmano (specie se di fresca immigrazione) non fa
lo stesso effetto del caso Franzoni.
Negli USA è diverso. Quando
accade qualcosa di brutto al punto da sovrastare per un momento il flusso di
notizie che martellano l’americano medio, quest’ultimo sarà naturalmente
indotto a chiedersi se l’incriminato non appartenga per caso al proprio ceppo
etnico e, assicuratosi del contrario, non ci baderà più di tanto.
Siffatto fenomeno dipende non
poco da quella sorta di spersonalizzazione (nonché allentamento di freni
inibitori) che ciascuno subisce dopo essersi sradicato dal proprio ceppo
d’origine, ma è anche destinato ad intensificarsi quando all’immigrazione
seguono fenomeni di spietata emarginazione che colpiscono soprattutto persone
di colore.
Se già ci si sensibilizza poco
sull’evento delittuoso è fin troppo chiaro che ci si disinteresserebbe del
tutto nel caso che ad esso dovessero seguire condanne di tipo detentivo. Ecco,
a conti fatti, la vera ragione del mantenimento delle esecuzioni capitali. Non
dimentichiamo di vivere in una “civiltà” che si alimenta di immagini. Quella di
un tizio col pigiama a strisce, ammettiamolo, sarebbe una ben misera cosa.
L’apparato proprio del cerimoniale che precede e guida le esecuzioni è invece
tutt’altra cosa. D’accordo che, contrariamente a quanto avveniva in passato, lo
scannamento di qualcuno non avviene più in pubblico. Ma fa comunque sempre un
certo effetto che tutto attorno ai luoghi delle esecuzioni corrano a stazionare
miriadi di troupes televisive con accompagnamento di cori e processioni pro e
contro l’accoppamento di qualche disgraziato.
In ultima analisi chi, democraticamente, viene collocato a forza su di una sedia elettrica, in una camera a gas, come sul più rinomato lettino da siringa non sconta solo il proprio peccato, ma anche e soprattutto le incongruenze, le ingiustizie, le manipolazioni ed i crimini della società che lo ha condannato.