TEMPO DI LOBBYCRAZIA
Talvolta mi chiedo se esiste ancora qualche cerebroleso danneggiato al punto da ostinarsi nell’illusione di vivere in una società autenticamente democratica; in un contesto, vale a dire, caratterizzato da libera formazione delle idee, libertà di espressione e responsabile partecipazione alle scelte della collettività.
Certo è che, almeno a parole, pare che, specie per il XXI secolo, questa faccenda delle libere istituzioni debba rappresentare una questione di vita o di morte.
Non c’è manifestazione pubblica, per scalcagnata che sia, disposta a sorvolare sull’esaltazione di un sistema che diventa, tuttavia, sempre più simile a quelle entità ectoplasmatiche ed evanescenti la cui enorme rilevanza data dalla pubblicistica di settore risulta inversamente proporzionale alla difficoltà per il comune mortale di riuscire a metterci le mani sopra.
Alle collaudate forme di "democrazia popolare", "liberaldemocrazia", "socialdemocrazia", oggi si aggiunge una variante decisamente filantropica; quella "da esportazione", dei cui benefici stanno già godendo le popolazioni di Iraq e dintorni..
Temo che se ci si accingesse a smontare questa sorta di sacro "sarchiapone" non potremmo fare a meno di ritrovarci con le mani sporche di cacca.
Vogliamo cominciare dalla "libera formazione delle idee"?
Personalmente, resto nella convinzione di vivere in un paese la cui popolazione risulta freneticamente indaffarata a scansare piogge di mattoni senza aver modo di riuscire a capire da dove c. le arrivino. Non è colpa sua se nessuno mai s’è preso la briga di fornirle rudimenti di economia. Chi avrebbe potuto farlo, dal momento che gli stessi rami del Parlamento pullulano di gente che ne sa quanto se non meno di lei? Non è nemmeno questione d’istruzione. Prendiamo quanti hanno la fortuna (si fa per dire) di frequentare corsi di formazione superiore. Ne usciranno convinti che la guerra sia quella che ha insegnato loro la scuola; conflitti risoltisi a colpi di cannone. Nulla sarà più lontano dalle loro teste della consapevolezza di appartenere alla generazione che sta vivendo un nuovo genere di guerra; diversa dalle precedenti, ma non meno devastante di quelle riportate dai libri di testo; conflitti scatenati all’insegna del puro profitto, che causano, come e peggio che in passato, migrazioni e mutamenti di portata decisamente biblica.
Tanto mentre continuano a proliferare stuoli di "maitres à penser" impegnatissimi ad istillare nelle nuove leve il sacro fuoco dell’antifascismo. Il che sarebbe come voler spiegare le cause del primo conflitto mondiale andando a gettare la croce sullo "sbarco dei Mille".
E che dire della libertà di espressione? Quella cui s’attaccano con grande veemenza i così detti organi d’informazione? C’è ancora chi crede alla favola di testate che devono l’esistenza all’attaccamento del pubblico? Viene da ridere al solo pensiero che un giornale possa vivere ergendosi a portavoce d’una comunità mentre si vive sotto il costante martellamento di strumenti calibrati sulle esigenze di chi li foraggia e ne copre i passivi; raggruppamenti più o meno seri d’imprese, banche, multinazionali e soggetti, in genere, a tal punto animati dall’ ansia di farsi gli affari propri da raggiungere incredibili risultati nella sublime arte della minchionatura di massa.
Al forzato tappamento di eventuali residue smagliature provvedono quelle emittenti televisive che, pur paludate dai contrassegni (leggi "canoni") di pubblico servizio, non possono astenersi dallo sventagliare raffiche di programmi d’intrattenimento uno più scemo dell’altro. Questione di audience. Impossibile essere da meno delle altre TV. La committenza pubblicitaria ha le sue esigenze; meglio evitare che vada dispersa la grana da essa elargita. Resta l'effetto collaterale della corsa al rincoglionimento dei teleutenti, ma è cosa che lascia il tempo che trova. Quando proprio si è costretti a salvare la faccia si può sempre improvvisare qualche dibattito politico senza capo né coda; lo stretto indispensabile per consolare i nostalgici della perduta vita di sezione, convincendoli che la TV può fare di meglio e di più.
Per salvare il salvabile, almeno a livello di salvaguardia dell'autocoscienza individuale, si potrebbe tentare di attaccarsi alla riappropriazione dell’identità nazionale con connesso apprezzamento della comune matrice europea. Impresa ardua perché chiamata a fare i conti con i più o meno disinteressati estimatori della società multietnica.
Resta il folklore della rituale chiamata alle urne. I più l'avvertono come un fastidio che ha molto in comune con le incertezze che ci tormentarono nei primi anni delle elementari. Una confusione della Madonna, alimentata dall’intasamento delle cassette postali e dai sondaggi indispensabili ai professionisti degli exit-pool, per non parlare dei candidati scassapalle che non c’è verso lascino in pace telefoni e telefonini.
E siamo al calo costante del numero dei votanti. Quanti proprio non riescono a raccapezzarsi tirano a fottersene disertando i seggi. Democraticamente parlando sono ormai la maggioranza, come dimostra l'affluenza alle recenti consultazioni per le "suppletive".